ABEL FERRARA: COME PASOLINI (UN TEMA FORTE DEL SUO CINEMA) UN TESTIMONE ONESTO DEL PROPRIO TEMPO.
di Giovanni Berardi
E’ un regista straordinariamente affabile Abel Ferrara. E gioioso anche, divertente e divertito, nella sua aria che lo avvicina deciso in un menestrello del rock anni settanta. Se gli parli poi di Bob Dylan, o di Miles Davis come è capitato, i suoi occhi cominciano davvero a brillare. Dopo, forse è il lato piuttosto napoletano che ha in sé (il nonno veniva da Sarno), che gli fa confessare anche un amore estremo per Nino D’Angelo (e noi glielo perdoniamo). Ci sentiamo proprio a nostro agio al suo cospetto, in quella che è una bella mattinata sul mare di Anzio. Con Abel non era la prima volta che ci si incontrava. L’idea immediata è sempre stata quella che Abel Ferrara vive praticamente dentro di sé, ed in ogni istante, il suo cinema. E’ molto disponibile, forse perché fondamentalmente americano, proprio nella cultura, resta cortese, gentile, attento, persino premuroso poi all’atto delle fotografie, quando sembra scegliere addirittura con grande cura le pose e come fare per apparire meglio. Poi il suo restare un regista sempre appartato, quasi isolato, a noi lo fa apparire addirittura ascetico, anche eroico e genialmente misterioso. Del suo cinema poi, quello che amiamo alla follia è l’ onestà, il cuore, la sofferenza che Abel offre ad ogni inquadratura, avverti finanche i sentimenti, anche le sue emozioni più intime, poi il film può essere anche non bello, ma è sicuro che questo film lo adori ugualmente e sicuramente lo puoi anche venerare, anche al di là dalla resa artistica. Abel Ferrara è un regista sicuramente originale, anche nelle sue pellicole più spudoratamente generiche, l’occhiello importante è sempre attivo ed in linea e la sua ricerca poi sempre in forte e netta controtendenza. Per questo i suoi film, anche quelli irrisolti, si fanno decisamente apprezzare. Si rimane senza dubbio coinvolti nella sua rete, nelle sue maglie e matasse di forte identificazione sociale: fede, lealtà, amore, carità, perdizione. Nulla è mai scontato nelle pellicole di Abel Ferrara. E questo che, in larghissima ipotesi, fa più spesso gridare al capolavoro. Scendiamo dunque nell’osservazione più personale, anche un po’ per colmare di più il ragionamento. The Driller Killer” “L’Angelo della vendetta”, “Paura su Manhattan”, “China girl”, “Il Re di New York”, “Il cattivo tenente”, “Occhi di serpente”, “The Addiction – Vampiri a New York”, “Fratelli”, “Blackout”, “Il nostro Natale”, “Mary”, sono i titoli di Ferrara che abbiamo amato alla follia. Tutti gli altri invece li abbiamo assolutamente adorati, come già affermato, non compresi magari, non accettati fino in fondo, ma assolutamente venerati. E chiacchierando con Abel Ferrara, davvero il cinema può restare in un angolo, ed in quell’angolo può rimanere anche a lungo, soprattutto sono i suoi film che stanno lì e lì rimangono. Lui ti coinvolge alquanto e ti può trasferire in altre situazioni e contesti, nella musica ad esempio. Dice che quando ha stretto la mano a Bob Dylan non sapeva in fondo cosa dirgli. E questa cosa lo diverte ancora moltissimo. Con Pasolini sarebbe successa la stessa cosa se solo avesse avuto l’opportunità di conoscerlo. Ciò non è stato, Pasolini è morto molto tempo prima e di questo Ferrara ancora se ne rammarica e dispiace. Si capisce con fermezza che Pasolini è stato per Abel un deciso ed appassionato amore culturale, una importante lezione, qualcosa che non devi e non puoi mai trascurare. Per questo gli ha dedicato, e non sappiamo nemmeno se questo può essere l’aggettivo più giusto, un film dal titolo netto, “Pasolini”. Con Abel Ferrara le cose scontate non succedono, non hanno senso, non hanno nemmeno la minima opportunità di crearsi. Proprio come è successo nel cinema e nella letteratura di Pier Paolo Pasolini. In fondo, come Pier Paolo Pasolini, anche Abel Ferrara è un autore indignato. E proprio verso la ferocia del suo tempo. E Pier Paolo Pasolini proprio con questa ferocia, per tutta la sua esistenza culturale, ha fatto i tristissimi conti. Pier Paolo Pasolini, pur vivendo addosso la ferocia del mondo, in fondo con il suo cinema non l’ha mai espressa, al contrario della sua poesia. Pier Paolo Pasolini con il suo cinema ha cercato proprio la speranza e in qualche maniera anche l’identità, tranne che nel suo ultimo film “Salò o le centoventi giornate di Sodoma” che proprio per queste sofferte esigenze, riteniamo essere il suo film più sublime. “Salò o le centoventi giornate di Sodoma”, é qualcosa che riteniamo essere proprio il testamento culturale e spirituale di Pier Paolo Pasolini. Abel Ferrara al contrario pensiamo, questa indignazione, l’ha invece espressa e la esprime ancora in ogni fotogramma del suo splendido cinema. Per questo il percorso artistico e cinematografico di Abel Ferrara quindi non poteva non riconoscere e non inseguire la personalità di Pier Paolo Pasolini. Oggi questo percorso ha portato Abel Ferrara finanche entro i misteri (anche qui non sappiamo se l’aggettivo è proprio centrato) della morte e della vita di Pier Paolo Pasolini. “Sono deciso sempre a raccontare la morte proprio per parlare della vita” ammette Abel Ferrara, quando intuisce che la nostra prima domanda, che in definitiva non riusciamo nemmeno a formulargli per intero, viaggia su questi parametri. Se guardiamo già al suo primissimo film, “The Driller Killer” girato nel 1979, un film soprattutto imperniato di solitudine ed incomprensioni, il richiamo é deciso e preciso verso la poetica pasoliniana. Pier Paolo Pasolini resta, ed è una cosa scontata, una questione spinosa per tutti coloro che, in ogni caso, hanno deciso di averlo come base. Il film di Abel Ferrara “Pasolini” è stato indubbiamente un progetto del cuore più che una operazione della testa. Un film putrido, Ferrara ha inquadrato nel suo film anche un po’ di “sporcizia”, la grandezza di Pasolini stava anche tra questo intorno, stava anche nell’essere disturbante. La morte di Pasolini resta una morte crudele, maledetta, insopportabile che, sino ad ora, gli ha consegnato, in fondo, solo una aureola eroica fatta essenzialmente di ipocrisia (e comunque il caso giudiziario sulla sua morte proprio in questi giorni è stato riaperto) e Abel Ferrara con il suo “Pasolini”, pur amando di un amore profondo il poeta, ha evitato il santino. Perché un film meritevole su Pier Paolo Pasolini è sempre un urlo, un urlo terribile, come quello che Pier Paolo Pasolini ha evocato negli ultimi versi della tragedia di “Teorema”:
“é impossibile dire che razza di urlo sia il mio.
E’ vero che è terribile – tanto da sfigurarmi i lineamenti rendendoli simili alle fauci di una bestia.
Ma è anche, in qualche modo, gioioso, tanto da ridurmi come un bambino.
E’ un urlo fatto per invocare l’attenzione di qualcuno o il suo aiuto, ma anche forse per bestemmiarlo.
E’ un urlo che vuole fare sapere in questo luogo disabitato, che io esisto,oppure, che non soltanto esisto, ma che so.
E’ un urlo in cui in fondo all’ansia si sente qualche vile accento di speranza, oppure un urlo di certezza, assolutamente assurda, dentro a cui risuona, pura, la disperazione.
Ad ogni modo questo è certo: che qualunque cosa questo mio urlo voglia significare, esso è destinato a durare oltre ogni possibile fine.
Dice Abel Ferrara che Pier Paolo Pasolini continua ad essere il suo eroe: “vedendo “Il Vangelo secondo Matteo” ho scoperto e capito tutta la semplicità che c’è nell’autore Pasolini. E’ semplice, diretto, sembra anche anticinematografico. Non so poi cosa sia che lo ha reso e lo rende ancora sempre così particolare. E potente anche. E poi troppo presto il mondo è stato privato del suo dibattito”. Di Abel Ferrara si dice che sia un regista cattolico, come lo si diceva in fondo anche di Pier Paolo Pasolini. Forse una risposta è nella dichiarazione che Abel Ferrara fece quando uscì il suo film “Mary” a favorire il ragionamento in questo senso: “nella crocifissione di Cristo vi è l’inizio della civiltà occidentale”. “Per quel poco che so della civiltà occidentale” aggiunge Abel Ferrara oggi, semplicemente ridendo.
Scrivi un commento