GIOVANNI LOMBARDO RADICE E LA RIEDIZIONE DEL SUO LIBRO: “UNA VITA DA ZOMBIE. VITA E CARRIERA DI UNA STAR DELL’HORROR”
di Giovanni Berardi
Abbiamo in mente una immagine nitida: Giovanni Lombardo Radice che calca i prosceni del teatro d’avanguardia negli anni mitici dei settanta, proprio nelle anguste cantine, tanto ricercate, perché erano le sole disposte ad ospitare, in quegli anni il teatro, quel teatro nato fuori dai grossi giri commerciali. In quelle occasioni lo avevamo incontrato spesso e molte volte con la compianta collega ed amica, Agnese De Donato. E piace ricordare oggi Agnese, giornalista, scrittrice, fotografa, una personalità che aveva davvero dominato gli anni settanta, proprio culturalmente, arrivando anche a fondare quella che è stata la prima rivista femminista della storia italiana, Effe. E piace soprattutto ricordarla oggi, insieme a Giovanni Lombardo Radice, anzi l’argomento di Agnese, insomma, in qualche maniera, ha funzionato proprio come un deterrente, puntuale anche per rompere il ghiaccio ed iniziare a ritrovarsi con Giovanni e a ricordare. Lo avevamo incontrato, Giovanni Lombardo Radice, anche in un momento, i tardi anni settanta, in cui dalle pagine della rivista Muzak, la rivista nata davvero per “usare la musica, la cultura e le altre cose” era ferreo e determinato a denunciare come il teatro d’avanguardia,ma non solo quello, fosse incanalato in una profonda crisi, come la chiamava “ideologica e di sfiducia”, che all’atto pratico si traduceva soprattutto in pochissime novità ed in moltissime riprese. E questo non andava per niente bene a Giovanni, anche se il grande boom del teatro “innegabilmente continuava” e, semplicemente, ancora continua, fortunatamente. Perché davvero, pensiamo, il teatro è nato proprio con l’ affermarsi della civiltà o, per dirla poi con il grande attore Mario Carotenuto “due persone iniziano a parlare? Comincia il teatro. E con qualunque proscenio poi, può essere un marciapiedi, una stazione ferroviaria, una camera in un appartamento”. Oggi poi, che non c’è più anche il regista Memè Perlini, grande amico dei tempi giovanili di Giovanni Lombardo Radice, e che negli anni settanta fu davvero il talento più riconosciuto del teatro d’avanguardia italiano, quello delle cantine per intenderci, la malinconia diventa ancora più estrema. Indubbiamente anche in questo caso non si può fare a meno di menzionare con Lombardo Radice il regista di origini gitane. Il ricordo di Lombardo Radice corre verso il teatro Quirino di Roma, pieno davvero come un uovo per vedere l’ “Otello” allestito da Memè in una primaverile sera del 1975. Tempi di grandi ideali quelli, e di resistite lotte giovanili al sistema, e Giovanni, esattamente come tanti, di questi ideali e di queste lotte era un portabandiera. Sulla sua collaborazione a Muzak poi, il nostro giornale del tempo, quello dei grandi ideali in fondo, anche di quelli semplicemente più artistici e musicali, Giovanni Lombardo Radice ricorda la redazione come un covo, anzi un rifugio, di simpaticissimi inguaribili sognatori. Conveniamo anche che, proprio nell’ambito di quegli anni, e forse solo in quegli anni, noi appassionati, abbiamo visto all’opera le migliori trasposizioni teatrali dei vari classicismi, vale a dire, soprattutto e a menadito: appunto l’ “Otello” di Perlini, “Il Re Lear”,“L’opera da tre soldi”, “Il giardino dei ciliegi”, “Antonio e Cleopatra”, “La bisbetica domata”, “Edipo Re”, “La signorina Giulia”, anche Il “Tartufo” di Moliere, e poi il Pirandello di “Trovarsi”, quello di “Tutto per bene” e de “Il Fu Mattia Pascal”, il “Gesù” messo in scena dallo stabile di Torino, anche poi il miglior adattamento de “Il risveglio di primavera”. Insomma quanta commozione in questi ricordi. Ma voltiamo pagina, torniamo ai giorni nostri. Oggi Giovanni Lombardo Radice è davvero un reduce, anche una radice storica tutto sommato, e “malgrado” come dice, del set dello splatter italiano. I titoli più acclamati in questo senso vanno da “Paura nella città dei morti viventi” di Lucio Fulci a “Cannibal Ferox” di Umberto Lenzi, il set tanto detestato, per passare poi attraverso “La casa sperduta nel parco” di Ruggero Deodato, ed “Apocalipse domani” di Anthony M. Dawson, “Deliria” e “La chiesa” di Michele Soavi. Oggi Giovanni Lombardo Radice ha sul mercato la riedizione di un libro molto bello, una autobiografia puntuale, un percorso narrato proprio a sancire i diversi caratteri della sua professione di attore. “Una vita da zombie. Vita e carriera di una star dell’horror” questo il titolo del suo libro edito dalla David and Matthaus edizioni, non è solo il percorso specifico di Giovanni Lombardo Radice nei sentieri dell’horror movie più puro, ma è anche il percorso nello spettacolo, che nella famiglia importante dei Lombardo Radice (il nonno Giuseppe, pedagogista di fama internazionale e primo traduttore di Kant, il padre, il matematico Lucio, docente universitario e fondatore del Coordinamento dei movimenti per la pace e storico dirigente del Pci, la madre, la nobildonna Adele, docente universitaria e figlia di Arturo Carlo Jemolo, un padre della patria, un consulente della Costituzione Italiana, un giurista ed uno storico di fama mondiale, anche il primo direttore della Rai dopo la guerra) non era mai stato visto di buon occhio, nemmeno quando Giovanni frequentava il teatro puro ed autori quali Giorgio Strehler, Aldo Trionfo, Carlo Cecchi, Giancarlo Cobelli, Memé Perlini, Giuliano Vasilicò, Giancarlo Nanni. Di Aldo Trionfo e di Giorgio Strehler poi Lombardo Radice ne è stato per anni l’aiuto regista. Dice Giovanni Lombardo Radice: “di Aldo Trionfo certamente si. Oddio per Strehler dire che sono stato l’aiuto regista è usare una parola grossa. Sono stato un perfetto ed apprezzato portatore di caffè. Ero insomma, questo sì, l’aiuto dell’aiuto dell’ aiuto volontario di Strehler al Piccolo di Milano, quando faceva la regia de “Il Campiello”. Ma comunque si, indubbiamente ho avuto una grande lezione vedendo lavorare Strehler. Poi, subito dopo l’esperienza con Strehler, salto a Torino a fare il “Bel Ami” con Aldo Trionfo, spettacolo in cui avevo anche una parte da attore, oltre all’impegno come aiuto regista”.
Giovanni Lombado Radice dice di non avere mai davvero amato il genere horror e splatters, di essersi
però trovato dentro, a suo tempo, nei primissimi anni ottanta, semplicemente perché padrone totale della lingua inglese. Gli horror splatter italiani, girati in uno stile che piaceva moltissimo al pubblico internazionale, venivano girati in Italia, per questo motivo, assolutamente commerciale, direttamente in lingua inglese, proprio per consentire facilmente l’accesso immediato nel mercato internazionale. Comunque, come onestamente ha detto Giovanni Lombardo Radice, per anni questo coinvolgimento nel cinema horror gli aveva regalato, in fondo, quella fama e quel lavoro che forse, diversamente, non sarebbero mai arrivati così continui e così puntuali, ed anche se, in queste pellicole, finiva spesso semplicemente maciullato o sbudellato, se non addirittura trapanato, come ormai nella classica sequenza del film “Paura nella città dei morti viventi”, dove il regista Lucio Fulci si era divertito un mondo a fargli trapanare il cranio con il classico black-decker. La posizione insomma conquistata con quei film non è stata, come ricorda Giovanni Lombardo Radice, da disprezzare. Anzi. E di qualche film ne ha anche un ricordo fiero e compiaciuto. Di “Deliria” ad esempio, realizzato dal regista Michele Soavi: “certamente nel genere horror il film di Soavi è quello che più mi rappresenta. Insieme a “La casa sperduta nel parco” di Ruggero Deodato. Questi due titoli assolutamente mi appartengono. Con Soavi poi ho anche condiviso tanti anni della mia giovinezza, è stato, e lo è ancora, uno dei miei migliori amici. In quegli anni, molto spesso capitava che, facendo tardi la sera, lui restava a dormire da me, o io ero ospite in casa sua. Questo ha fatto si che si sia consolidata proprio una grande amicizia, una grande conoscenza. Conoscendomi cosi in profondità poi è stato l’unico a poter capire, a poter condividere, pur nei confini del genere horror in cui si muovevano i suoi film, la mia vena naturale di comico. Si perché io amo fare ridere la gente, ne sono proprio capace devo dire. In teatro poi, negli anni migliori per la mia professione, ero quello conosciuto proprio per questo. Ed in questi due film, “Deliria” e “La casa sperduta nel parco”, avverto proprio i contatti naturali con il mio mondo teatrale. Così come “Deliria” parla molto del teatro, nel senso che la sua trama è proprio collocata ed ambientata all’interno di un teatro, “La casa sperduta nel parco” di Ruggero Deodato invece è un film di chiara drammaturgia teatrale, di tale ispirazione e realizzazione. Indubbiamente è così, sono i miei lavori fatti al cinema che più amo e che più mi appartengono”.
Del rapporto non facilissimo poi avuto con il regista Umberto Lenzi sul set di “Cannibal Ferox”, Giovanni Lombardo Radice è stato onesto: “con Umberto Lenzi non ho avuto un buon rapporto. Quando giravamo “Cannibal Ferox” non siamo mai stati in sintonia. Ecco, mettiamola così: eravamo due persone con due caratteri molto diversi. Io sono, e resto, di educazione anglosassone, per me ha un valore la scala meno, meno, meno. Cioè levare, togliere, scremare. Umberto no, Umberto era esattamente così: io, io, io. Io ho fatto, io ho detto. Insomma cercava sempre di coinvolgermi in quelle discussioni in cui le inquadrature migliori erano sempre le sue. Poi Lenzi era un regista assolutamente urlante, aggressivo, e qualche volta raggiungeva pure toni insultanti. Difficile salvarsi dalle sue angherie. Probabilmente era un suo metodo per stimolare al meglio i suoi collaboratori. Magari negli ultimi anni della sua vita sarà pure cambiato, io però non lo ho più incontrato”. E veniamo un po’ al gioco del confronto tra i set, e tra i registi, Ruggero Deodato ad esempio, era un regista urlante? Dice Lombardo Radice: “assolutamente si, ma sbraitava in maniera diversa, non era convinto forse nemmeno lui, c’era sempre tra le righe la sua bontà d’animo, la sua simpatia. Perché Ruggero è assolutamente un simpaticone, crede in quello che fa. Ma davvero lo crede con onesta umiltà”. E poi c’è il percorso con un altro regista amato, Anthony M. Dawson, nome d’arte di Antonio Margheriti. Dice Giovanni Lombardo Radice: “Anche Anthony M. Dawson era un pezzo di pane. Davvero impareggiabile come uomo, ed anche come regista. Anche con lui ho lavorato in maniera splendida. Ed il suo film poi non era assolutamente male”. Per la cronaca il film di Anthony M. Dawson era “Apocalipse Domani”, un cannibal-movie che in realtà è anche altro. Si inserisce davvero in più filoni “Apocalipse Domani”, quello degli zombie e, perché no, pure in quello del diniego e della rabbia all’assurda guerra del Vietnam. Ancora il mondo più onesto si domanda perché tanto sangue in quell’ inutile conflitto scatenato dagli Stati Uniti d’America, dal suo capitalismo ammalato. Per questo celebriamo alquanto, ancora oggi, “Apocalipse Domani” e, tra i film interpretati da Giovanni Lombardo Radice, piace assegnarli la prima posizione.
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