La natura dei colori per illuminare il cinema. La mostra di Vittorio Storaro a Palazzo Merulana
di Giovanni Berardi
A Settembre il traffico sulla via del lungomare di Sabaudia è come mitigato e percorrerla in questo contesto dà un grande senso di pace, di libertà, di armonia. E il promontorio di Circe, fascinoso, che si staglia all’orizzonte e diventa sempre più vicino, sembra raggiungere proprio l’irresistibile. È facile avere queste sensazioni, questi stimoli di poesia, quando si va a trovare Vittorio Storaro, uno dei più famosi ed autorevoli autori della fotografia cinematografica in campo mondiale che, in estate, elegge a sua musa e dimora la città di Sabaudia, città che nel giorno dell’ottantesimo anniversario della sua fondazione, il 15 aprile 2014, gli ha donato la cittadinanza. Incontrare Vittorio Storaro non è stato semplice perché, anche quando è in vacanza, Vittorio Storaro non smette mai di lavorare, a maggior ragione in questi giorni in cui sta allestendo la sua mostra, “Scrivere con la luce”, al Palazzo Merulana di Roma, che sarà inaugurata il prossimo 18 settembre, mostra che si protrarrà sino all’ 1 novembre. Il lavoro dell’autore della fotografia rimane sempre difficile da raccontare, forse a causa delle informazioni che continuano a latitare su questa figura importante del cinema. Dice Vittorio Storaro: “il linguaggio del cinema è l’immagine, che è formata dal conflitto e dall’armonia degli elementi fondamentali della nostra vita, cioè dall’ombra e dalla luce”. É su questa base teorica, in fondo, certo tra situazioni anche estreme di studi e di ricerche, che si è espressa tutta la sua filmografia e che ora Vittorio Storaro testimonierà anche nella sua mostra. Tre premi oscar a coronare la prestigiosa carriera internazionale: “Apocalipse now” di Francis Ford Coppola, “Reds” di Warren Beatty, “L’ultimo imperatore” di Bernardo Bertolucci, un palmares a Cannes per “Tango” di Carlos Saura, fino alla lunga stagione, quella più recente, in cui Storaro ha illuminato “finalmente” anche il cinema di Woody Allen: “Cafè society”, “La ruota delle meraviglie”, “Un giorno di pioggia a New York”. Tra i primi film illuminati da Vittorio Storaro anche “L’uccello dalle piume di cristallo”, opera prima di Dario Argento. E proprio con “L’uccello dalle piume di cristallo” come ne “Strategia del ragno”, film girati quasi in contemporanea, quest’ultimo titolo segna il primissimo incontro con Bernardo Bertolucci, il regista simbolo della sua carriera, Storaro comincia a realizzare, attraverso lo studio sul significato della luce e sulla sua componente più immediata che è l’ombra, la consistenza e la natura rivelatrice dei colori. Storaro gira con Bernardo Bertolucci ben otto film in un percorso che, oltre ad essere artistico e culturale, è diventato, set dopo set, di comprensione profonda, complice, intima, fraterna: “Strategia del ragno”, “Il conformista”, “Ultimo tango a Parigi”, “Novecento”, “La luna”, “L’ultimo imperatore”, Il te nel deserto”, “Piccolo Buddha”. Vittorio Storaro sintetizza così il suo rapporto con Bernardo Bertolucci: “il mio rapporto con Bernardo ha riguardato oltre il vissuto più prossimo e quotidiano, anche l’inconscio e l’intuizione irrazionale. Mi ha accompagnato, devo dire, in un tratto di vita importante, proprio di scoperta di me stesso. Bernardo per un lungo periodo è stato in analisi, quindi la sua domanda nel fare film era una continua analisi, una sorta permanente di terapia. E proprio da questo, in fondo, si è concretizzato il grande matrimonio tra me e Bernardo: la necessità di esprimersi di Bernardo, spesso attraverso i simboli, e la mia necessità di esprimermi, tramite la luce e l’ombra, che guarda caso in psicanalisi sono i simboli del cosciente e dell’inconscio”. Poi improvvisamente, a conclusione delle riprese del film “Piccolo Buddha”, arriva il grande e doloroso distacco da Bernardo Bertolucci. Racconta Vittorio Storaro: “Ero qua, a Sabaudia, quel giorno, quando arrivò la telefonata di Bernardo. Mi avvisava che per una serie di considerazioni, anzi di proprie necessità, non poteva più continuare con me il suo percorso nel cinema. È stato questo un grosso dispiacere per me ed è rimasto anche un mistero”. Forse il dualismo avviato dalla stampa, il confronto Bertolucci-Storaro, sempre evidenziato dalla critica più autorevole e più di settore, quel loro legame messo un po’ troppo a fuoco, è stato un motivo della decisione di Bertolucci, o forse anche le opposte opinioni sul futuro del cinema hanno determinato il rapporto in questo senso. Se da una parte Bernardo Bertolucci parlava di morte della cultura, e quindi anche del cinema più incline alle sue corde, dall’altra, nel pensiero di Storaro c’era invece, e c’è ancora, la profonda convinzione che a morire siano soltanto gli antichi supporti tecnici tradizionali. “Il Conformista”, girato da Bernardo Bertolucci nel 1970, è il film che per Vittorio Storaro ha significato la coscienza, e la consacrazione della professione, finalmente individuata anche “sul piano della forma razionale e della consapevolezza”. Dice Vittorio Storaro: “ne “Il conformista” io stavo scoprendo certo qualcosa, l’analisi sistematica delle componenti della luce stava chiarendo il percorso: i colori blu, azzurro, violetto, verde, giallo, arancio finalmente individuati tra i due limiti estremi, il nero e il bianco, che sono poi anche i due limiti opposti della vita, cioè il buio e la luce”. I suoi tre libri infine, “Scrivere con la luce”, “I colori”, “Gli elementi”, ora raccolti in un cofanetto con dvd allegato, rappresentano i documenti e la testimonianza di questo percorso artistico, tecnico e filosofico della sua professione. Una esperienza che comunque si potrà rivivere, nella sua magnificenza, anche nella mostra di Roma.
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