THE HARVEST-IL RACCOLTO”, IL FILM DI ANDREA PACO MARIANI E MARCO OMIZZOLO PRESENTATO AL FONDIFILMFESTIVAL
di Giovanni Berardi
Sono ormai anni che il sociologo pontino Marco Omizzolo, docente di sociopolitologia delle migrazioni alla Sapienza e sociologo Eurispes, denuncia lo sfruttamento compiuto da alcune aziende agricole e il reato di caporalato compiuto ai danni soprattutto della comunità indiana della provincia di Latina. Lo ha fatto attraverso inchieste giornalistiche, documentari, libri, anche sul terreno pratico delle accuse penali (una retata, epilogo di una sua inchiesta, ha mandato in prigione, per la gestione disumana dei braccianti agricoli nell’area del litorale pontino, alcuni schiavisti, i cosiddetti caporali, un sindacalista e un ispettore del lavoro) e lo ha fatto anche attraverso un progetto cinematografico, “The Harvest – Il raccolto” che Marco Omizzolo ha firmato insieme al regista Andrea Paco Mariani e che è stato in rassegna a Fondi nell’ambito della XXI edizione del FondiFilmFestival. Abbiamo avvicinato Marco Omizzolo e gli abbiamo rivolto qualche domanda:
-Il film presentato a Fondi è una appendice dei tuoi lavori editoriali sul tema della presa di coscienza e poi della rivolta alla schiavitù del lavoro, al padronato capitalista, alle agromafie, al caporalato?
Il film oggi è un documento importante. E’ stato realizzato durante l’organizzazione dello sciopero del 18 aprile del 2016. Deriva da una nostra inchiesta, “Doparsi per lavorare come schiavi”, redatta da me e da Simone Andreotti e pubblicata dalla coop. In Migrazione. In questa inchiesta denunciavamo, già nel 2014, l’utilizzo indotto da parte dei lavoratori indiani di sostanze dopanti come le metanfetamine, gli antispastici e l’oppio con lo scopo di reggere le fatiche estreme legate allo sfruttamento e alle varie forme di emarginazione e violenza che spesso subiscono. E’ un dossier che ha fatto il giro del mondo e che continua a far parlare di sé. Da questo dossier deriva il film di Paco Mariani, vincitore di numerosi festival, sia in Italia che all’estero. “The Harverst-Il raccolto” è il fenomeno, peraltro ancora diffuso, anzi in continua evoluzione, sul quale è necessario tenere vigile lo sguardo, l’analisi e l’azione di prevenzione e contrasto per evitare che i lavoratori diventino “arnesi” nelle mani di sfruttatori italiani e di immigrati privi di scrupoli.
-Per mesi hai fatto il bracciante agricolo, lasciavi la macchina al residence Bella Farnia di Sabaudia e raggiungevi i campi in bicicletta. Diventavi il bracciante, uno di loro, proprio per dare verità assoluta ai tuoi studi …
Si tratta di una esperienza che in sociologia si chiama osservazione partecipata. E’ una metodologia originariamente propria dell’antropologia e nel contempo ancora fondamentale per scendere in profondità nei fenomeni sociali in sé complessi, articolati e in continua evoluzione per evitare letture stereotipate, retrograde e poco utili come quella che ancora oggi conduce alcuni ad affermare la diffusione di una sorta di “lavoro grigio” da intendere come forma di sfruttamento meno impattante di quello “nero”. In realtà il “lavoro grigio” è, a parer mio, una forma evoluta, sofisticata dello sfruttamento tradizionale che è in grado di esprimere e nel contempo nascondere forme di schiavismo, come molte ricerche accademiche hanno dimostrato. Sotto questo punto di vista mi appoggio molto alle ricerche di Thomas Casadei, docente di filosofia del diritto all’università di Modena e Reggio Emilia e a molti report delle Nazioni Unite. Quella esperienza mi ha permesso di vivere l’esperienza dello sfruttamento nella sua complessità e di percepirne la natura tridimensionale, complessa, permanente e il relativo “cervello sociale” che porta alla sua evoluzione e sofisticazione continua. Per questo l’azione sindacale non basta ma deve essere affiancata dalla ricerca sul campo più evoluta e coraggiosa. Come dice il professor Franco Ferrarotti nella prefazione del mio libro “Per motivi di giustizia”, pubblicato da People, l’oggetto della sociologia non è un oggetto ma un soggetto, una persona, con una specifica esperienza biografica esistenziale. Questa esperienza va conosciuta e per quanto possibile approfondita e (ri)vissuta per indagarne la complessità panoramica e così capire anche le vie di uscita.
-Vivere tra le intimidazioni, perché per il tuo lavoro ne hai ricevute parecchie, gravissime e pericolosissime,
cosa ha comportato nel percorso della tua esistenza?
Ha significato guardare con occhi attenti a coloro che si avvicinavano, cambiare provincia di residenza, avere timore per i propri familiari. Ma ho bene in mente quanto affermava un celebre partigiano anarchico, Taro, il quale diceva, quando gli facevano la stessa domanda: “Paura sempre, non paura sempre anche quella”. Ed è così. Non si può non avere paura, ma non ci si deve far condizionare. I risultati ottenuti grazie all’impegno di braccianti immigrati, italiani, donne e uomini, merita di continuare e di diventare collettivo, contro ogni tentativo di appropriazione del tema per fini solo speculativi di carriera o di potere, come invece spesso avviene. E comunque penso che se vogliano vivere da uomini e donne liberi dobbiamo pagare un prezzo e io ho deciso di pagarlo.
– Il tuo ultimo libro si intitola “Per motivi di giustizia”. In questo testo sviluppi una serratissima critica nei confronti di quelli che definisci “sedicenti leader della comunità indiana pontina”. Cosa intendi?
Sostengo che vi sia stato e sia ancora un corso un alto tradimento dei percorsi di emancipazione e lotta condotti nel corso degli ultimi anni per via di interessi assunti e svilupparti da leader della comunità indiana che però nessuno ha mai votato o sostenuto democraticamente essere tali per ambizione di potere economico e politico, ossia di rappresentanza. Sono già capitati omicidi, spedizioni punitive, ricatti e minacce. Si può parlare di sistema criminale indiano e questo sta ipotecando dall’interno il lungo lavoro sviluppato nel corso degli ultimi anni. Ciò che i padroni italiani non sono riusciti a fare con le loro minacce e ritorsioni, in sostanza riescono a farlo questi finti leader, nei confronti dei quali per fortuna nel corso degli ultimi mesi si è sviluppato un fronte interno alla comunità che si sta contrapponendo con coraggio al loro strapotere e al loro desiderio smodato di affermazione e affarismo. Lo stesso vale per alcuni operatori e operatrici sociali, sia indiani sia italiani, che credo siano stati già segnalati alle forze dell’ordine. Queste ultime invece sono la punta avanzata nel contrasto allo sfruttamento per competenza e determinazione e a loro va il mio plauso e sostegno.
– Da “Per motivi di giustizia”, cosa inviti a leggere , in particolare, ad un tuo giovane lettore?
Direi la storia di Balbir, bracciante indiano a cui per la prima volta viene riconosciuto un permesso di soggiorno per motivi di giustizia dopo aver vissuto di fatto in schiavitù per 6 anni alle dipendenze e sotto il ricatto e a volte violenze fisiche e minacce di morte del suo padrone italiano, molto vicino ad organizzazioni mafiose. E poi la storia di Gill, emblematica anche per capire la qualità di parte della nostra classe politica, che lo ha attaccato pubblicamente insieme ai giornalisti che denunciavano sfruttamento e caporalato, dopo essere stato preso a bastonate e buttato in un fosso dal suo padrone, imprenditore residente a Borgo Hermada, a Terracina, solo per aver chiesto di lavorare con la mascherina. Alla faccia del lavoro grigio e di un sistema alla fine sotto controllo.
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